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Fabrizio Musa fa parte di quella generazione di artisti, nati tra gli anni Sessanta e Settanta, le cui abitudini sono state fortemente influenzate dalle immagini fotografiche e digitali, attraverso il computer, la televisione, il cinema, la pubblicita' e tutti gli altri supporti iconografici del nostro contemporaneo quotidiano.
La sua generazione, forse piu' di ogni altra, ha come modus operandi una pratica naturale a consumare, produrre, modificare immagini del reale, combinando una liberta' espressiva e una conoscenza profonda degli strumenti in uso a una raggiunta coscienza critica.
Ma nella ricerca di Musa, le nuove tecnologie e il medium fotografico - che usa come mezzo per prelevare frammenti di vita, sfruttandone il massimo potenziale di sperimentazione e manipolazione - sono unite al piu' tradizionale dei linguaggi: la pittura.
Concentrato sulla registrazione della realta', l'artista si affida ad un'eterogeneita' d'ispirazione, sapendo che la sua forza di coesione nasce dalla costante e rigorosa attenzione alla forma.
Cosi' saccheggia indistintamente foto che provengono dal suo privato (ritratti di amici, scene di interi, oggetti di casa) per passare alle rappresentazioni di celebri architetture (la serie recente dedicata a Terragni), ai panorami di citta' fino ai frame di film o programmi televisivi.
Ma per ognuno di questi casi seleziona sempre l'immagine di partenza studiando la luce, gli oggetti, le prospettive, soffermandosi su ogni minimo particolare.
Musa ha a sua disposizione un repertorio vastissimo che gli consente di spaziare tra le inquadrature piu' particolari ed eccentriche, fino ai piu' semplici, e proprio per questo familiari, squarci del quotidiano, resi con un taglio in ,molti casi di suggestione cinematografica.
Comincia, insomma, dalla totalita' dell'immagine e arriva sulla tela, a cogliere l'essenza del reale.
Procede, come dicevano gli antichi, “per via del levare”, eliminando i colori, le ombre, le sfumature e alcuni particolari della scena attraverso passaggi lunghi e complessi.
Stampa e scannerizza l'immagine scelta, la elabora col computer togliendo, come si diceva, tutto il colore. Sulla superficie poi riduce i pixel che componevano il frame iniziale, usando quasi esclusivamente acrilici nelle tonalita' del bianco e del nero.
Una decisione rigorosa, difficile, ma funzionale ad evidenziare gli aspetti plastici di cio' che raffigura, cosi' come la trama dell'immagine.
Per questa sua recentissima serie l'artista ha indirizzato l'attenzione in maniera quasi esclusiva agli esterni e agli edifici celebri di Bergamo: il duomo, la cappella Colleoni, la porta della citta'.
Si sofferma sulle strutture, sulla nitida scansione dei volumi e delle superfici, evidenzia la bicromia delle pietre, la texture dei blocchi massicci, i giochi geometrici dei singoli elementi architettonici.
Quasi completamente assente, invece, la presenza della figura umana.
Unica eccezione il dipinto in cui ritrae tre bambini di fronte a una scalinata, ma in questo caso si percepisce un distacco dai piccoli protagonisti.
Sembra quasi che li riprenda come fossero di passaggio: il suo sguardo non si lascia andare all'emotivita', non ritrae individualita' diverse, o meglio non solo, per lui rappresentano comunque una forma su cui concentrarsi.
Le sue figure sono tutte li', nella loro presenza.
Quello di Musa diventa cosi' un altro modo di percepire il dato reale.
Da una foto o un frame da' vita a qualcosa strettamente legato ad esso, pur senza rispecchiarne la struttura originaria.
E questo suo punto di vista non nasce da una volonta' di falsificazione, quanto piuttosto dal tentativo di rendere unico l'istante di vita che rimane impresso sulla tela.
Emma Gravagnuolo