2008 Torino _ Wall Paint Santo Volto
Santo Volto in pixel
Alessandra Coppa
De-figurare_ri-figurare
Prospettive guidate. Sequenze di architetture paratattiche. Forte spezzamento visivo. Distacco forzato. Dettaglio asciutto e rigorosa solidità. Sottrazione e stilizzazione critica. Radiografie del costruito. Architetture come archetipi monocromi generati dai pixel e manipolati sulla tela in un’interazione tra pittura figurativa e tecnologia.
Fabrizio Musa passa allo scanner foto o le stampe di frame da video, le salva come file di testo (txt) riducendo l’immagine a pixel bianchi e neri.
Un file di testo è un file per computer che contiene solo caratteri di scrittura semplici, senza informazioni sul loro formato (dimensione, colore, ecc).
Colori, ombre e sfumature lasciano il posto a una visione scarna e sintetica riportata su tela pixel dopo pixel con gli acrilici.
Si assiste a una progressiva de-figurazione per poi passare di nuovo a vestire di figuratività.
Raggiunta questa visione preferenziale del dettaglio dell’architettura, l’oggetto ottenuto per sottrazione di colore e di forma diventa percorribile, manipolabile, esplorabile, scomponibile, non come una semplice e intangibile vista: l’artista può iniziare a raffigurare.
Musa procede seguendo un progressivo aumento del grado di astrazione con un conseguente decremento del livello di “iconicità” per poi recuperarlo aggiungendo materia in un secondo momento. Il suo lavoro si colloca fra la polarità iconicità/astrazione o meglio tra enfatizzazione/esclusione: preseleziona per il destinatario. Dove “enfatizzare” significa ingrandire, caricare di materia, sottolineare i contrasti percettivi ed “escludere” significa non mostrare, celare visivamente, eliminare dettagli non considerati portatori di senso.
Prima dello studio sul Santo Volto di Mario Botta, Musa lavora sulle architetture di Terragni e su panorami di città (Como, Bergamo). Per ognuno di questi casi seleziona con rigore l'immagine di partenza studiando la luce, le prospettive, soffermandosi su ogni particolare materico.
Il dipinto “figurativo“ di Musa nasce dunque da un procedimento di ri-scrittura dell’immagine reale (fotografata) in una sorta di “testo iconico” semplificato, per poi essere caricato di nuova figurazione e matericità.
Musa è fortemente influenzato dalle immagini fotografiche e digitali, dalla televisione, dal cinema, dalla pubblicità e da tutti gli altri supporti iconografici del nostro contemporaneo quotidiano che cattura attraverso il computer.
Ha un’attitudine particolare a consumare, produrre, modificare immagini del reale, combinando una libertà espressiva e una conoscenza profonda degli strumenti in uso a una raggiunta coscienza critica.
Ma nella ricerca di Musa, le nuove tecnologie e il medium fotografico - che usa come mezzo per prelevare frammenti, sfruttandone il massimo potenziale di sperimentazione e manipolazione - sono finalizzate al più tradizionale dei linguaggi: la pittura.
Musa affronta nell’esecuzione delle sue opere prima “la descrizione” (attraverso la fotografia) poi “la riduzione” (attraverso i procedimenti di manipolazione) e infine “l’interpretazione” (attraverso la pittura). Il primo passo analizza i tratti e le immagini percepite, la loro organizzazione in un segno più ampio dotato di senso (sintassi). L’insieme di simboli e valori suggerisce successivamente una particolare interpretazione del segno, reprimendo interpretazioni alternative. La riduzione tenta quindi di esplorare l’essenza di un esperienza interpretativa, indagando il modo in cui un segno viene ridotto ad una particolare percezione.
Il suo percorso si snoda dunque tra l’esistente e il modificato, tra reale e virtuale. Si costruisce dalla complessità alla progressiva riduzione con rigore stilistico verso l’essenza dell’immagine che vuole comunicare.
A partire dai primi anni Ottanta molti artisti creano opere d’arte sulla base di opere già esistenti. Non si tratta più di elaborare una forma sulla base di un materiale grezzo, ma di lavorare con oggetti che sono già in circolazione sul mercato culturale. I concetti di originalità e di creazione svaniscono in un panorama culturale dominato da nuove figure come il programmatore, capace di selezionare oggetti culturali e includerli in nuovi contesti.
La supremazia della cultura dell’appropriazione tende ad abolire il diritto di proprietà delle forme e a favorire un’arte della postproduzione, attraverso la quale gli artisti inventano nuovi usi per le opere del passato e operano una sorta di editing delle narrative storiche e ideologiche. E’ l’arte della Postproduzione teorizzata da Nicolas Bourriaud, (NOTA N. Bourriaud, Postproduction. Come l'arte riprogramma il mondo. Postmedia 2004) la pratica artistica più adatta per reagire al caos della cultura globale nell'era dell'informazione. Pittura di Musa compresa.
Botta_Musa
Musa è alla ricerca costante di un’architettura dalle linee solide e rigorose, alla ricerca di simboli forti e altrettanto forti metafore visive. Probabilmente è questa la ragione dell’incontro con l’architettura di Mario Botta. Per la capacità di entrambi di saper cogliere le linee di forza che definiscono le forme architettoniche, la tensione dinamica dell’immagine.
Musa rilegge l’architettura attraverso un processo “sottrattivo”. Botta “edifica sottraendo”. Delle costruzioni di Botta è stato detto più volte che si pre¬sentano come dei blocchi monolitici, ai quali sono inferte pro¬fonde ferite nelle grandi spaccature che fungono da finestre e lucernari. Blocchi monolitici, con vuoti lacerati per sottrazio¬ne di materia (NOTA G. Pozzi, Edificare sottraendo, inSull’orlo del visibile parlare, Adelphi, Milano 1993 430-433).
L’immagine architettonica, informatizzata e tradotta nella bidimensionalità da Musa subisce lo stesso grado di sottrazione, di selezione di dettagli e dei contrasti, nel quale sono evidenziate le linee di forza e i contrasti tonali.
A questa “riduzione” percettiva ben si presta l’archiettura massiva, geometrica fatta di luce e gravità di Mario Botta, che reagisce in maniera significativa una volta riportata sulla tela con schematismo nudo e netto.
Botta ha recentemente sottolineato: “Musa lavora sulla lu¬ce come io lavoro sull'organizzazione dello spazio architettonico. Riporta ad esempio nel suo bianco e nero i risultati delle ombre nate dal contesto tridimensionale dell'opera. Ed è per me una sorta di verifica della "tenuta" del miei lavori: l'architettura è sempre stata pensata come spazio, come struttura tri¬dimensionale, e vederla "appiattita" sulla tela è una lettura che non avevo mai immaginato”. (NOTA Intervista a Mario Botta di Lorenzo Morandotti in “Corriere di Como”, 22 dicembre 2007 p. 22)
Il lavoro di Musa sembra dunque per certi versi (e paradossalmente) “chiarire” alcuni caratteri dell’architettura di Botta.
L’architettura di Mario Botta mette in evidenza la "tettonica" come celebrazione delle virtù costruttive dell'architettura, come valorizzazione della sua "materia" contro la sua svalutazione proposta con insistenza dagli esiti dell'informatizzazione mediatica e dalla diffusione della cultura degli "immateriali".Quello che caratterizza al meglio l’architettura di Botta è la geometria che ha il ruolo di interpretare la lettura dello spazio, gli angoli enfatizzati e I'ordinamento simmetrico delle pareti e delle sottrazioni. Botta, insomma, restituisce il muro in tutta la sua pienezza. La facciata cessa di essere solo un esile involucro (NOTA A. Coppa, Mario Botta, Motta Architettura, Milano 2007).
Musa dopo il processo di selezione e di informatizzazione dell’immagine ne restituisce la matericità (la tettonica) sulla tela.
L’interesse di Musa per la chiesa del Santo Volto di Torino coincide con un rinnovato interesse di Botta rispetto al ruolo e ai significati che l'opera di architettura sacra assume nel contesto, come nel caso del Santo Volto di Torino che diventa generatore di un nuovo polo urbano. Sono problemi nuovi, sorti recentemente, diversi da quelli che si erano presentati in passato. La chiesa oggi è relegata, nella maggioranza dei casi, dentro spazi residui di una urbanizzazione sparsa senza immagine, cresciuta attraverso leggi suggerite dalla speculazione edilizia.
Le tipologie ecclesiali, che hanno per secoli modellato spazi di grande qualità nell'evoluzione dei differenti stili e linguaggi, merita¬no secondo Botta una nuova risposta: una struttura forte che regoli l’organizzazione dello spazio e della forma che, in più, assuma valenze simboliche. Ma c’è di più, sottolinea Mario Botta: “L’aspetto interessante di questo approccio è che attraverso l’indagine degli spazi del sacro ho scoperto i temi e i principi che motivano l’architettura stessa”, ovvero l’idea del recinto, della soglia, del muro.(Nota M. Botta, Costruire una chiesa, in Chiesa a Seriate, Skira, Milano 2004, p. 23, cfr. anche M. Botta, Lo spazio del sacro, in Architetture del Sacro. Preghiere di Pietra, Editrice Compositori, Bologna 2005) La chiesa del Santo Volto, a pianta centrale si presenta esternamente come un corpo circondato da sette torri perimetrali senza alcuna gerarchia architettonica apparente. Ad ogni torre, poi, si aggiungono più esternamente di volta in volta i corpi più bassi delle cappelle. Sia le torri sia le cappelle, grazie all'estremità superiore tronca, fungono da lucernari immettendo luce indiretta all'interno dell'aula. La scelta di una pianta a forma eptagonale, che è venuta a coincidere con il forte significato simbolico-religioso, ha permesso di dare un orientamento all'aula interna introducendo un'asse ingresso-altare rivolto verso la città. Mario Botta usa spesso il termine "ingranaggio" per spiegare questa architettura; e non solo per l'evidente similitudine formale ma anche in senso più metaforico per definire il suo ruolo centrale e accentratore rispetto al contesto urbano poco disegnato (NOTA M. Botta. S. Pace, La chiesa del Santo Volto a Torino, Skira, Milano 2008). Sullo sfondo dell’esposizione torinese, il wall paint della ciminiera, perno ottico della composizione è evidenziato solo dalla struttura elicoidale. La trasfigurazione dell’elemento annulla l’elemento di sostegno per evidenziare la spirale dinamica. L'ex-ciminiera delle acciaierie è diventata il simbolo del vecchio e del nuovo utilizzo. Da un lato essa è memento e memoria visiva delle origini industriali del luogo, dall'altro è una torre a sostegno della croce. Avvolta da un cordone elicoidale in acciaio sul quale sono montate una serie di lamelle che paiono spine, la torre luccica sia di giorno sia di notte, e al vertice dei suoi sessanta metri sta una croce color argento. Chiude il gioco dei rimandi Botta_Musa la Sacra Sindone tradotta (questa volta) da Botta in pixel. Al progettista è stato chiesto di introdurre un elemento che rappresentasse la "Sacra Sindone" all'interno della chiesa. L'idea iniziale era quella di creare una sorta di bassorilievo ma poi si è optato per una soluzione suggerita dalle possibilità offerte dalla tecnologia digitale. Rifacendosi all'immagine del volto di Gesù impresso sul telo della "sacra sindone" traducendo la fotografia in un'immagine binaria, ovvero costituita da "pixel" bianchi e neri, Mario Botta insieme ai suoi collaboratori è riuscito a ricostruire il santo volto attraverso una sapiente tessitura delle pietre: mattoncini in "rosso di Verona" sono stati infatti lavorati con due forme diverse e montati in modo da mostrare un cuneo per creare una zona d'ombra oppure un lato piano per riflettere la luce. Il risultato è che alle spalle dell'altare si scorge da lontano il viso di Gesù che si materializza con l'effetto della luce radente proveniente dall'alto.
fabriziomusa.txt
di Alessandra Coppa
A. C. Lavori con lo scanner… cosa ne pensi del rapporto arte-tecnologia?
F.M.: Arte e internet, secondo me sono un binomio che funziona. Un’interazione interessante da sviluppare. Intendo la tecnologia come un supporto, un mezzo intermediario per comprendere la realtà, per raggiungere gli obiettivi che l’artista ha già in mente.
Lo scanner mi offre la possibilità di scomporre l’attimo e di ricomporlo come si fa nel linguaggio cinematografico con la pellicola.
A.C. Perché il punto di partenza di tutte le tue opere è l’immagine fotografica?
F.M. La fotografia è parte integrante del mio lavoro, è fondamentale per la ricerca. Un passaggio obbligato che poi filtro attraverso l'utilizzo della tecnologia digitale. Rappresenta il punto di partenza: è il mio occhio per catturare il dettaglio. Fotografare per me ha lo stesso valore di uno schizzo, del prendere appunti dalla realtà.
A.C. Mi sembra che preferisci lavorare sui particolari sparati in grandi dimensioni. Con che criterio selezioni il dettaglio?
F.M.: Gli edifici dalle prospettive esasperate creano tensioni significative. Utilizzo sempre immagini che mi possano stimolare, per questo scatto molte vedute di un edificio da ritrarre e studio poi la soluzione stilistica che più mi attira o mi incuriosisce. Nelle immagini che scelgo per rappresentare le architetture, spesso compare come elemento ricorrente il taglio obliquo, decentrato, dell'inquadratura. In questo modo saltano all’occhio particolari che nella realtà non avrebbero mai potuto essere espressi.
Mi concentro sul dettaglio architettonico cercando di riportarlo alla scala 1:1. Questa mia intenzione si concretizza nei wall paint, come nel caso del Novocomum di Terragni a Como.
A.C. Come passi dalla riduzione dell’immagine, resa schematica dai procedimenti informatici in bianco e nero, alla matericità esaltata soprattutto dal singolare uso del colore come “squarcio”’?
F.M. La pittura resta la mia più grande passione. Il fatto di creare diversi strati di colori è un mio modo di vivere la tela. Il colore viene steso sulla tela per poi essere ricoperto in parte o completamente. Mi piace vivere il dettaglio in molti modi diversi durante l’esecuzione dell’opera anche se il risultato di più immediata evidenza del mio intervento tecnologico sull'immagine è l'eliminazione quasi totale del colore che riconduce l'immagine al suo scheletro neutro. Nella realizzazione delle mie tele il colore ha un'importanza fondamentale proprio per il fatto che a un primo sguardo non c'è, o meglio: non si vede, ma si percepisce. In ogni caso il colore si "sente" con la sua matericità e la sua forza anche se il dipinto è quasi totalmente in bianco e nero. A poco a poco, osservando attentamente, dallo sfondo di queste tele emergono squarci d’arancio, d’azzurro, di giallo.
Citazioni di Mario Botta sullo spazio del sacro
L’architettura ha tutti gli elementi del sacro: apporta un plus valore alla condizione di natura, trasformandola in una condizione di cultura che “sacralizza” il terreno vergine. In più l’architettura possiede dal mio punto di vista altri elementi che sono propri del sacro. L’atto fondativo, quindi il momento in cui si delimita un microcosmo rispetto al macrocosmo, l’idea di caratterizzare l’interno in modo diverso dall’esterno, l’idea della soglia, l’idea del limite, l’idea della luce…
L’architettura del sacro deve essere insomma un antidoto all’architettura dell’effimero, del consumo del mondo contemporaneo.
Ma costruire una chiesa oggi, comporta anche il confronto con alcuni interrogativi rispetto al ruolo e ai significati che l'opera di architettura assume nel contesto urbano. Sono problemi nuovi, sorti recentemente, diversi da quelli che si erano presentati in passato.
La chiesa oggi è relegata, nella maggioranza dei casi, dentro spazi residui di una urbanizza¬zione sparsa senza immagine, cresciuta at¬traverso leggi suggerite dalla speculazione edi¬lizia.
Le tipologie ecclesiali, che hanno per secoli modellato spazi di grande qualità nell'evoluzione dei differenti stili e linguaggi, merita¬no una nuova risposta: una struttura forte che regoli la generazione dello spazio e della forma che, in più, assuma valenze simboliche.
In un mondo fortemente destrutturato, l'edificio sacro può essere dunque inteso (oltre che per la pratica e la funzione religiosa che gli sono proprie) non solo come segno dell'essere cristiani o ebrei o musulmani, ma qualcosa che rappresenta gli uomini nella loro complessità e il mondo stesso nella sua sacralità. In questo senso, ho più volte definito il Museo “la nuova cattedrale moderna” .
Credo che la sfida per l'architettura cristiana contemporanea sia quella di reinverare gli archetipi della tradizione specificamente cristiana, riappropriandosi della carica di positiva espressività del sacro.
In quartieri spesso di nuova urbanizzazione, come per esempio la Spina tre di Torino dove ho recentemente realizzato il complesso parrocchiale della Chiesa del Santo Volto tra anonimi contenitori abitativi, la comunità credente deve segnalare la sua presenza anche a chi non entra in chiesa, grazie a una costruzione volumetrica che si distingue, che ha un carattere in qualche modo "storico", che si ricollega con un passato non solo della Chiesa ma anche della città, dell'Italia, d'Europa.
Edifici-luogo come la chiesa parrocchiale di Pordenone, di Sartirana, la cattedrale di Evry, servono per creare un altro sito, la dove questo non c'era. Nel progettare un’architettura sacra si devono affrontare temi e problemi propri dell’atto del costruire, ovvero l’arte di trasformare un equilibrio esistente in un nuovo equilibrio.
Per costruire uno spazio sacro bisogna perciò, innanzitutto, credere nel costruire, quindi nell’architettura, non penso si possa costruire se non si crede nella necessità dello spazio sacro. In questo spazio il visitatore deve essere pronto a superare il limiti della propria quotidianità: la luce, che è la generatrice dello spazio, si presta come elemento portante di questa fuga oltre la funzione; i materiali naturali come la pietra, il marmo, il cotto, rendono poi concreti gli spazi. Tuttavia nelle mie chiese è fondamentale la geometria per sentirsi in equilibrio con le parti costruite, per il controllo globale dello spazio. Questi sono tutti elementi che inducono a una riflessione attorno alla perfezione, attorno alla bellezza per creare degli spazi alternativi rispetto ai centri commerciali o ai garage che sono tipici della cultura contemporanea.
Per questo nelle mie chiese ho insistito su pochi elementi: la gravità perché sono convinto che un edificio debba legarsi al suolo, perché sta nella sua vera natura. La forza del fatto architettonico è quella di appartenere ad un contesto, è quella di costruire quel luogo piuttosto che costruire in un luogo e quindi l’idea di gravità come elemento positivo riafferma la presenza in un contesto. Secondo elemento è l’idea della luce, e di conseguenza i materiali generati dalla luce, la luce è un’entità astratta che ha bisogno dei materiali per assumere forza e significato. Questa è l’unica costante che ricorre nelle mie costruzioni di chiese. Le tipologie sono invece di volta in volta ripensate, rovesciate, proprio perché sentono nel contesto l’elemento di dialogo strettamente necessario, perché trovano nel sito l’elemento attraverso il quale può scoprire una possibile verità anche per il fatto architettonico.
L’interesse che io ho provato verso il sacro in vent’anni di sperimentazione è dovuto al fatto di poter considerare anche i valori non direttamente d’uso, quelli funzionali, ma di privilegiare il fatto evocativo dell’architettura, ovvero tornare a parlare ai bisogni primordiali dell’uomo per dare un emozione al visitatore.
Per l’architetto, costruire oggi una chiesa dentro il tessuto sociale multietnico di una comunità sempre più secolarizzata, rappresenta anche una sfida per affrontare il disegno e l’immagine della città. Progettare una nuova chiesa è una straordinaria occasione per rileggere criticamente le trasformazioni attuate dalla cultura moderna e tentare di incidere o correggere le molte distorsioni realizzate dalle recenti urbanizzazioni.
Il tema della chiesa ha una sua propria storia millenaria e ha sempre rappresentato un punto di riferimento con attività e servizi preziosi per la crescita e la qualità del tessuto dell’intorno. Con la costruzione della chiesa si persegue uno spazio di dialogo e di confronto dentro la complessità e la contraddittorietà del tessuto urbano quale momento di pausa, spazio alternativo agli obiettivi strettamente “tecnici e funzionali” ai quali fanno oggi riferimento le spinte di crescita della città.